domenica 5 gennaio 2025

FATTACCIO DI SANGUE E CORNA

 

racconto di Marco Scaldini


FATTACCIO DI SANGUE E CORNA

            Nelle campagne della Valdinievole d’anteguerra era abitudine popolare appellare chiunque in modo affatto diverso da quello registrato all’anagrafe. L’usanza era di designare una persona, uomo o donna che fosse, con un nomignolo e il patronimico. Rosso di Mengone, per esempio, indicava qualcuno che con ogni probabilità era fulvo di capigliatura e figlio di uno a sua volta indicato dal soprannome; forse Mengoni di cognome ma adattato alla sua stazza. La Nana della Secca nominava una donna di statura non eccelsa la cui madre era decisamente snella (anche se non erano rari i casi di nomignoli antifrastici, per cui Acciughino poteva benissimo riferirsi a un omone oltre il quintale). Neppure le paternità dubbie erano risparmiate e Centobrodi rimandava oltre ogni possibile dubbio alle frequentazioni promiscue della madre. Sono bastati questi pochi accenni, d’altronde, per far comprendere come i moderni concetti di politically correct nonché di body shaming fossero quanto di più alieno sia possibile pensare per la società dell’epoca. Anzi, se qualcuno avesse loro detto che settanta anni dopo chiamare finocchio un omosessuale sarebbe stato considerato moralmente riprovevole e socialmente disdicevole lo avrebbero liquidato come uno fuori di testa. E probabilmente finocchio pure lui.

            Nessuna meraviglia quindi che la sera del 24 agosto 1936 i carabinieri di Montecatini incontrassero qualche difficoltà. L’appuntato Mongella e il carabiniere scelto Cipponi entrarono nell’osteria di Porta di Borgo, poco fuori dell’abitato di Montecatini Alto, a chiedere di tale Astolfo Bigongiari.

            Era l’ora in cui gli uomini cominciavano a radunarsi davanti a un bicchiere di vino, dopo una giornata di duro lavoro o, nel caso di alcuni, di tentativi più o meno riusciti di scansare qualsiasi fatica. Compito comunque stancante anche quest’ultimo. Ad alcuni tavolini si giocava a carte ma erano partite senza pretese, per ora. Solo più tardi si sarebbero formate le coppie abituali, per le sfide a quattro a tressette, briscola e scopa; quelle dove si giocava “il fiasco” che i quattro giocatori provvedevano debitamente a svuotare durante la partita e che i perdenti pagavano. La differenza si notava e soprattutto si sentiva: dopo sarebbero risuonati i pugni sul tavolo e volati i moccoli, in mezzo a liti furibonde. Se qualcuno, per esempio, già mezzo cotto dai troppi bicchieri di vino, se ne fosse uscito di mano a tressette giocando un due secondo, avrebbe fatto tirar giù dal cielo al suo compagno tutti i santi, i cristi e le madonne, senza risparmiare Dio onnipotente.

            Ma per ora regnava la calma, per cui quando l’appuntato pronunciò quel nome, cadde nel silenzio delle facce meravigliate.

            «Mai sentito nominare, brigadiere», rispose per tutti l’oste, Baldo di Porro.

            «Appuntato. Eppure all’anagrafe del comune risulta residente qui nei paraggi, a Poggio alla Guardia.»

            «Sarà mica Talpa di Burallo?» disse una voce da un tavolo da gioco.

            «Può darsi. Mi pare che una volta mi abbia detto di chiamarsi Astolfo», soggiunse un altro.

            «E sapete anche dove abita?» chiese il carabiniere a nessuno in particolare.

            «Vi ci accompagno io, non è lontano da qui», intervenne il maestro Cecchi.

            Il maestro, benvoluto da tutti, non era però un frequentatore abituale dell’osteria. Compariva ogni tanto, beveva giusto un bicchiere e non giocava a carte. Si sapeva che passava i pomeriggi a studiare, per laurearsi in lettere e diventare professore.

            Come gli altri, però, era curioso di sapere cosa potessero mai volere i carabinieri da un uomo mite come Talpa di Burallo, e d’altronde era sufficientemente scaltro da non porre domande dirette, per cui fu soprattutto lui a parlare durante il tragitto.

            «Il povero Talpa non ha una vera e propria casa. Fa il boscaiolo o il bracciante e di solito è in giro per la montagna a tagliare alberi o a fare lavori occasionali dove lo chiamano. In genere dorme nelle stalle o in un cantuccio che gli riservano nelle case dei contadini. Tutto questo quando è qui, perché d’inverno parte per andare a fare il carbonaio in Maremma. Come luogo dove tiene le sue poche cose ha una stanza presso un mezzadro, che gliela affitta per poco.»

            All’osteria intanto era giunto il Bello di Pungolana, perdigiorno professionista che cominciava la sua giornata sul calare del sole, per terminarla a notte fonda dopo aver girovagato fra osterie, bische, postriboli e letti non suoi. Più di una volta qualche marito gli aveva lisciato il groppone a bastonate ma lui non desisteva. E come spesso accadeva, aveva da raccontare una delle sue imprese da scioperato.

            La notte prima, di ritorno verso casa, passando per la borgata di Montaccolle gli era venuta voglia di prendersi gioco di Buccione di Castrino. Buccione era un agiato contadino, con una moglie piacente e più giovane di lui; essendo fino a quel momento fallito nei suoi tentativi di cornificarlo, il Bello aveva voluto almeno rovinargli il sonno.

            Sonno che Buccione aveva particolarmente pesante, visto che la sera a cena non abbandonava mai il fiasco senza averne visto il fondo. Per questo al Bello c’era voluto un bel po’ per destarlo: ritto in mezzo all’aia della casa colonica sotto la finestra della camera padronale aveva urlato a squarciagola: «Buccioneee! Aiutooo!»

            Solo il cane alla catena che si era messo ad abbaiare furiosamente aveva infine portato alla finestra l’assonnato contadino.

            «Buccione, aiutami!»

            «Che c’è, che ti è successo?»

            «Sono disperato!»

            «Ma perché?»

            «Mi basterà la luna che c’è in cielo per farmi lume fino a casa?»

            Ci mise qualche istante Buccione per capire, ma quando si rese conto che l’altro lo stava prendendo per i fondelli scattò subito di lato, ormai perfettamente sveglio.

            Era normale abitudine dei campagnoli dell’epoca quella di dormire con il fucile carico a lato del letto. Buccione in particolare era persona di schioppo facile; pochi anni prima aveva rischiato la galera. Nel 1927 Pistoia si era staccata da Lucca, formando una provincia autonoma, e ai possidenti era stata imposta una tassa di cinquanta lire per le spese dei nuovi uffici. Il messo comunale che si era presentato da Buccione per la riscossione aveva ricevuto una schioppettata di avvertimento e l’ordine di levarsi subito dai piedi se non ne voleva una ben mirata.

            Il Bello lo sapeva bene e fu lesto a dileguarsi, tuffandosi nella siepe che costeggiava l’angolo più vicino dell’aia. La schioppettata arrivò, ma arruffò soltanto le foglie.

            «… e così potevo lasciarci le penne», stava concludendo il Bello quando il maestro fece ritorno.

            «Il povero Talpa invece lo hanno fatto secco», disse a voce alta per coprire le risate che accompagnavano la fine del racconto.

            Ci fu un attimo di silenzio totale, poi tutti corsero ad accalcarsi intorno al maestro, per sentire la novità che faceva di colpo dimenticare tutto il resto.

            «Lo hanno trovato questa mattina sulla strada per Marliana, con un colpo nel petto.»

            «Ma come? Talpa di Burallo? Ammazzato? Ma chi? E perché?»

            L’incredulità era generale. Tutti chiedevano al maestro Cecchi, che alzò le mani per farli tacere.

            «Sentite, non so niente di più di questo. I carabinieri non volevano neppure dirmi che era morto, ma quando hanno iniziato a chiedermi se aveva dei nemici ho capito e alla fine hanno ammesso che era stato ammazzato. Ho spiegato loro che era un tipo pacifico e lavoratore, un po’ solitario magari ma certo senza nemici, tanto meno qualcuno che volesse fargli la pelle. Almeno che io sappia.»

            «Certo che era sempre in giro per la montagna, chissà… a volte qualche sgarbo, un litigio, una parola storta…»

            «L’ho pensato anche io, ma arrivare fino a sparargli… mi sembra impossibile…»

            La discussione e le osservazioni andarono avanti fino all’ora di cena e proseguirono poi presso le tavole di casa di tutti i presenti, nonché dei vicini prontamente informati e ormai per giorni e giorni non si sarebbe parlato d’altro.

* * *

            Al maestro Cecchi non piacevano né i fascisti né i preti ma doveva campare e cercava di farlo in pace, per cui dava ripetizioni al figlio del federale, somaro quant’altri mai, e si faceva vedere in chiesa, almeno per le feste comandate.

            Il prete poi, don Ghigo, era un bonaccione inoffensivo e ingenuo a cui non si poteva voler male. Amante soprattutto della buona tavola, si premurava di invitare a pranzo il maestro di tanto in tanto, ritenendolo comunque una persona di rilievo nel paese.

            Quella domenica, come del resto sempre, più che badare alla funzione il maestro osservava i comportamenti delle persone. Più di tutti lo incuriosivano quelli che si recavano al confessionale. Questo strumento di controllo della religione cattolica non cessava di affascinarlo: osservava i volti di chi si inginocchiava, prima e dopo essersi sgravati delle proprie colpe, e dalle loro espressioni pareva trasparire un reale beneficio ricevuto da quella operazione, come se davvero i peccati commessi non esistessero più. Ma non quella volta: la Marzia della Santa, moglie di Buccione, si era avvicinata con il volto assai turbato e dopo la confessione non era rimasta in chiesa per la funzione, allontanandosi quasi di corsa. Don Ghigo, dal canto suo, era emerso dal confessionale facendosi ripetutamente il segno della croce.

Più tardi, a pranzo, il maestro aveva affrontato alla larga l’argomento.

«Certo che deve essere dura per voi sacerdoti farvi carico di tutte le confessioni di questa povera gente…»

«Non me ne parli, caro maestro, non me ne parli. Si sentono certe cose che… lasciamo perdere; oggi poi non le dico…» e tornò a farsi il segno della croce. «Lei, piuttosto, di carico me ne ha dato ben poco, caro maestro, visto che non si presenta mai da me», soggiunse poi per cambiare discorso.

* * *

            Al maestro però era bastato per fare due più due e uscito da lì si recò alla stazione dei carabinieri.

            Poche ore dopo Buccione veniva arrestato per omicidio colposo, mentre la moglie in lacrime ammetteva la verità. Nascosto nella siepe, la notte dell’omicidio, c’era Talpa di Burallo, in attesa che lei gli aprisse la porta una volta che il marito fosse profondamente addormentato. La schioppettata diretta al Bello aveva colpito lui, che poi si era trascinato fino alla strada, dove era morto.

* * *

            Un punto rimase oscuro per qualche tempo. Perché mai una donna piacente come la Marzia teneva per amante un bifolco come Talpa di Burallo? La motivazione il maestro la apprese qualche tempo dopo, chiacchierando con il medico del paese.

            «Vede Cecchi, il patologo che ha eseguito l’autopsia è mio amico. Mi ha confidato che di fronte al cadavere di quel poveraccio sia lui che l’assistente sono rimasti letteralmente a bocca aperta davanti alle dimensioni spropositate di una parte del corpo, che non le nomino ma che lei potrà ben immaginare.»

            Il medico aveva parlato in via confidenziale e il maestro certo non si abbandonò a sparlarne in giro, ma la notizia, come sempre nei paesi, divenne comunque ben presto di dominio pubblico. E gli sfottimenti nei confronti del Bello non mancarono. Costui, infatti, non aveva tentato di approfittare dell’assenza di Buccione, in carcere, per consolarne la moglie. Tutt’altro: si era tenuto alla larga.

            «Che c’è, Bello? Paura del confronto?»

 

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