Qui di seguito il racconto che chiude il ciclo dedicato a Michele Settebordi, l'esperto di cinesica (e si chiude poiché lui, come vedremo, ha cambiato mestiere). Per comodità ne riepilogo i sei episodi precedenti:
Una giornata quasi al mare in Crimini con la valigia, Apice Libri 2022;
In questo caso non torna niente in Rosso Natale, Apice Libri 2024;
Il provinciale, Una storia senza titolo e La condanna in Il provinciale e altri racconti, Placebook 2023;
Cold Case in questo stesso blog alla data 12 gennaio 2024.
TACCHI ALTI CULO BASSO
Trippasecca, il cuoco, gli porse il tagliere con la fiorentina per il tavolo quattordici. Settebordi non lo aveva mai sentito chiamare diversamente, ma dubitava che Trippasecca fosse il vero cognome. Era un uomo di quarant’anni circa, alto, magro ma col ventre prominente, i capelli di un colore incerto e una manciata di peli sparsa disugualmente per il mento e le guancie. Parlava poco e quasi mai senza bestemmiare, anche perché in genere apriva bocca per prendersela coi camerieri, rei a suo dire di usurpare i complimenti e le mance dei clienti grazie ai suoi manicaretti. E quella notevole fiorentina per il quattordici era appunto foriera di mancia consistente, perciò Settebordi si affrettò ad andare a servirla a Foschini, cliente abituale.
Foschini era forse l’unico esemplare conosciuto di maschio infedele italiano che, per motivi rimasti ignoti, frequentasse lo stesso ristorante sia con l’amante che con la legittima consorte. Logico che quando si trovava con quest’ultima foraggiasse di laute mance i camerieri, onde lavar via dalla loro memoria qualunque riferimento agli incontri non autorizzati.
Invano.
Lei sapeva. Settebordi poteva dirlo con la certezza di anni di lavoro di analisi comportamentale. Tutti gli indicatori non verbali mostravano come la moglie fosse consapevole che lui avesse un’amante. I brandelli di conversazione captati durante il servizio di taglio della fiorentina, poi, gli dimostrarono anche come sapesse perfettamente chi fosse quella che lui si portava a letto.
«... quale altro significato e utilità vuoi trovare nelle labbra rifatte? Non certo estetici: cosa ci sia di bello nell’assomigliare a un canotto senza remi o a un pugile suonato e gonfio devo ancora scoprirlo. È una teoria ormai ampiamente dimostrata che i ripieni del botox corrispondono a uno svuotamento del cervello. E del resto hai mai trovato un uovo di Pasqua soddisfacente?»
L’atteggiamento della moglie era dominante: parlando si sporgeva in avanti, sovrastando il marito e schiacciandolo sia fisicamente che verbalmente.
«Cosa c’entra l’uovo di Pasqua adesso? Siamo a novembre.»
Foschini parlava con finta disinvoltura ma era sulla difensiva. Probabilmente aveva passato l’intera vita sulla difensiva: si sapeva (perché in provincia queste cose si sanno sempre) che i soldi erano della moglie e che lui giocava il ruolo del principe consorte.
«Pensaci bene – proseguì lei ignorando volutamente la banale osservazione del marito – hai mai trovato anche soltanto una volta una sorpresa nell’uovo di Pasqua che non fosse una ciofeca colossale? Anche in quelli che più si dichiaravano di lusso, con sorprese firmate e quant’altro. Alla fine poi non contenevano che un brutto portachiavi, una penna che non scrive o cianfrusaglie simili.»
«Ancora non ti seguo...» pigolò Foschini.
«Le troie, caro mio, ti attirano con una luccicante confezione esterna, con quelle labbra gonfie che promettono pompini da sogno...»
«Marta, ti prego...» gemette Foschini arrossendo e guardandosi intorno.
Settebordi terminò di tagliare la fiorentina e lasciò il vassoio a disposizione dei due coniugi, tornando in cucina per prelevare la prossima comanda.
«E allora, poliziotto? Ti sei gustato la scenata coniugale che poi ti frutterà una mancia più grossa?»
Ciupanelli, cameriere anziano del locale, non lo vedeva di buon occhio. Ancor di più dato il fatto lampante che a Settebordi non importasse un fico secco dell’opinione di Ciupanelli. Che lo chiamasse pure, lui come gli altri, poliziotto. La cosa gli faceva quasi piacere e non perché si sentisse lusingato dall’appellativo, bensì perché gli ricordava un passato del quale era felice di essersi liberato. Anni di studio, di sogni, di ambizioni, di speranze di cui non era rimasto nulla e che tuttavia non rimpiangeva. Non era stato un poliziotto, ma con le questure aveva collaborato per lungo tempo, in qualità di esperto di cinesica. Il linguaggio non verbale era la sua specialità e in molte occasioni gli era servito per risolvere casi intricati.
Invano, però.
La sua richiesta di poter entrare in pianta stabile in polizia non aveva mai avuto seguito e si era sempre dovuto accontentare di incarichi a gettone.
Per cui a un certo punto aveva detto basta. Il primo lavoro con uno stipendio decente che fosse riuscito a procurarsi, purché non lo impegnasse con la testa, lo avrebbe preso al volo. E così era finito a fare il cameriere in quella trattoria chic nel centro di Montecatini. In un paese dove i cuochi fungevano ormai da opinion leader e dove non potevi accendere la televisione senza imbatterti in un programma di cucina, la ristorazione era un settore che snobbava la crisi e i tavoli erano pieni tutte le sere.
Niente di meglio per Settebordi. Testa libera da elucubrazioni, semplice lavoro con stipendio dignitoso e nessuna preoccupazione. Aveva tirato dentro anche suo cugino, Dino Rosi, disoccupato cronico e scansafatiche da competizione, piazzandolo come aiuto in cucina. Abituato a trascorrere le giornate da nullafacente e a campare con il sussidio di disoccupazione, Rosi non mancava di lamentarsi, ogni volta che capitava, di questa tremenda disgrazia che gli era piombata addosso: dover lavorare.
Dopo aver ignorato il sarcasmo di Ciupanelli, entrato in cucina si trovò quindi di fronte il battagliero cugino: «Michele Settebordi! Lo sai quante patate ho sbucciato stasera?»
«Licenziati.»
«Ancora qualche giorno e vedrai…»
Ma quel giorno minacciato più volte non arrivava, poiché Rosi stava sperimentando sensazioni nuove, come per esempio il rientro a casa senza sotterfugi. Fino a poco tempo prima, privo com’era di uno stipendio fisso, doveva escogitare modi sempre nuovi sia per entrare che per uscire dal proprio appartamento: non pagava le spese condominiali da anni e l’amministratore gli tendeva agguati su agguati. Adesso, in comode rate, aveva iniziato a saldare gli arretrati.
«Ci mancavano le vostre recriminazioni familiari per essere al completo in questa gabbia di matti», disse Ciupanelli passando loro accanto.
Ciupanelli era perennemente incazzato con il mondo intero. Di fare il cameriere si vergognava. Non perché avesse titoli di studio tali da farlo ambire a qualcosa di meglio: possedeva solo la terza media, non essendo neppure riuscito a terminare l’istituto alberghiero. Il fatto era che lui sentiva di appartenere alla categoria dei furbi, e i furbi fanno i soldi, in barba alla laurea o alle capacità. Il fatto che invece il mondo lo relegasse a servire quelli che i soldi li avevano davvero lo considerava uno sgarbo del destino.
Settebordi proseguì nella sua politica di ignorarlo del tutto e tornò in sala.
Mentre serviva una portata al tavolo adiacente a quello dei coniugi Foschini, poté udire altri brandelli della concione della moglie.
«… come quelle che portano i tacchi alti pur avendo il culo basso. In questo modo non fanno che accentuare la propria chiattonaggine…»
L’amante di Foschini si presentava sempre in equilibrio su trampoli vertiginosi e questo non fece che confermare a Settebordi che la moglie si divertisse a tormentarlo. Probabilmente neppure lei si faceva mancare l’amante, perché non c’era traccia di gelosia nel suo atteggiamento, ma voleva ribadire la propria posizione di superiorità.
Si trattò comunque dell’ultima frase prima che nel ristorante entrasse la polizia.
L’ispettore Reggiani, accompagnato da un agente in divisa, si fermò poco dopo l’ingresso e scrutò la sala. Quando scorse Settebordi ebbe un moto di sorpresa e gli fece cenno di avvicinarsi.
«Che cazzo ci fai qui Settebordi? Un’operazione in incognito?» gli chiese, osservando la sua tenuta da cameriere.
«No, Reggiani, ho solo cambiato lavoro.»
«Cambiato lav… vabbè me lo spiegherai un’altra volta. Adesso indicami Alfredo Foschini, se sai chi è.»
«Lo so. Mi puoi dire perché…»
«No, non posso.»
«Andiamo, Reggiani.»
«Sto per arrestarlo per l’omicidio di Ciocetti Zaira, sua amante. O meglio ex amante, visto che l’ha strozzata. Ora mi vuoi dire chi è?»
Per evitare un arresto in mezzo alla sala, Settebordi andò al tavolo e, con un pretesto, chiese a Foschini di seguirlo. Dopo, non poté impedire alla sua deformazione professionale di seguire e osservare con attenzione le fasi seguenti.
Fece poi in tempo a raggiungere Reggiani prima che chiudesse lo sportello dell’auto, all’interno della quale stavano conducendo via un Foschini in evidente stato di shock, e a parlargli.
* * *
«Come hai fatto a capire che era stato lui?» gli chiese Reggiani il giorno dopo in questura. Aveva quel misto di considerazione e sospetto con cui lo trattavano in genere gli investigatori e che era stata una delle cause per le quali aveva abbandonato la collaborazione con la polizia. Che si era ritrovato poi a dover svolgere quasi controvoglia, con il caso del meschino Foschini.
«Ero lì accanto quando gli avete notificato l’arresto, e che il colpevole non fosse Foschini l’ho capito subito. Di fronte a quella notizia ha strizzato più volte gli occhi. È la classica espressione di chi è talmente sorpreso da non poter credere alla realtà e prova a chiudere e riaprire gli occhi nella speranza di trovarsi in un sogno. Non è la reazione di un colpevole.»
«Mi stai dicendo che semplicemente per il fatto che ha sbattuto le palpebre tu hai capito che era innocente?» Di nuovo l’incredulità cui era ormai abituato.
«Lo so che non si tratta certo di azioni che possano costituire una prova da esibire in tribunale. Proprio per questo il cinesico opera come consulente: a trovare le prove o a procurarsi le confessioni deve pensarci la polizia.»
«Ma come hai capito chi era il colpevole?»
«Mi ha insospettito l’atteggiamento di Ciupanelli, quando è uscito dalla cucina per osservare la scena. Aveva le mani in tasca, il che è inusuale per un cameriere. Voleva reprimere qualcosa. Inoltre non tutta la mano era nascosta: ne spuntava il pollice. Si tratta di una postura altamente aggressiva, di cui non sapevo spiegarmi il motivo. E inoltre entrambi i pollici puntavano senza ombra di dubbio in direzione di Foschini. Lui e la moglie erano clienti abituali e mi sono ricordato d’improvviso di una volta in cui, per puro caso, avevo captato un brandello di conversazione fra Ciupanelli e la moglie di Foschini mentre questi era in bagno, e i due si davano del tu. Cosa che non avveniva nell’ufficialità. I miei sospetti si sono quindi ingigantiti ed è stato allora che ho deciso di rincorrerti fino all’auto e confidarteli. Poi voi avete fatto il resto.»
«In effetti la loro montatura per simulare l’omicidio da parte del Foschini era abbastanza cialtronesca e probabilmente ci saremmo arrivati comunque. Però ci hai risparmiato senz’altro del tempo. Andiamo in pasticceria che ti offro la colazione.»
Quello era il massimo di ricompensa che poteva aspettarsi e si accontentò. D’altra parte Reggiani non si era accorto della piccola discrepanza temporale nel suo racconto. Settebordi non aveva subito seguito l’ispettore all’auto per comunicargli i suoi sospetti e infatti era arrivato solo poco prima che se ne andassero. Quel brandello di conversazione gli era tornato in mente dopo che suo cugino gli aveva riferito di aver scorto Ciupanelli che, credendosi non visto, aveva fatto gesti di esultanza all’arresto di Foschini.
Si fece offrire qualche pasta in più, che mise in un sacchetto da portare a Dino.
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