mercoledì 22 gennaio 2025
Requiem per il romanzo giallo
martedì 14 gennaio 2025
Tacchi alti culo basso
Qui di seguito il racconto che chiude il ciclo dedicato a Michele Settebordi, l'esperto di cinesica (e si chiude poiché lui, come vedremo, ha cambiato mestiere). Per comodità ne riepilogo i sei episodi precedenti:
Una giornata quasi al mare in Crimini con la valigia, Apice Libri 2022;
In questo caso non torna niente in Rosso Natale, Apice Libri 2024;
Il provinciale, Una storia senza titolo e La condanna in Il provinciale e altri racconti, Placebook 2023;
Cold Case in questo stesso blog alla data 12 gennaio 2024.
TACCHI ALTI CULO BASSO
Trippasecca, il cuoco, gli porse il tagliere con la fiorentina per il tavolo quattordici. Settebordi non lo aveva mai sentito chiamare diversamente, ma dubitava che Trippasecca fosse il vero cognome. Era un uomo di quarant’anni circa, alto, magro ma col ventre prominente, i capelli di un colore incerto e una manciata di peli sparsa disugualmente per il mento e le guancie. Parlava poco e quasi mai senza bestemmiare, anche perché in genere apriva bocca per prendersela coi camerieri, rei a suo dire di usurpare i complimenti e le mance dei clienti grazie ai suoi manicaretti. E quella notevole fiorentina per il quattordici era appunto foriera di mancia consistente, perciò Settebordi si affrettò ad andare a servirla a Foschini, cliente abituale.
Foschini era forse l’unico esemplare conosciuto di maschio infedele italiano che, per motivi rimasti ignoti, frequentasse lo stesso ristorante sia con l’amante che con la legittima consorte. Logico che quando si trovava con quest’ultima foraggiasse di laute mance i camerieri, onde lavar via dalla loro memoria qualunque riferimento agli incontri non autorizzati.
Invano.
Lei sapeva. Settebordi poteva dirlo con la certezza di anni di lavoro di analisi comportamentale. Tutti gli indicatori non verbali mostravano come la moglie fosse consapevole che lui avesse un’amante. I brandelli di conversazione captati durante il servizio di taglio della fiorentina, poi, gli dimostrarono anche come sapesse perfettamente chi fosse quella che lui si portava a letto.
«... quale altro significato e utilità vuoi trovare nelle labbra rifatte? Non certo estetici: cosa ci sia di bello nell’assomigliare a un canotto senza remi o a un pugile suonato e gonfio devo ancora scoprirlo. È una teoria ormai ampiamente dimostrata che i ripieni del botox corrispondono a uno svuotamento del cervello. E del resto hai mai trovato un uovo di Pasqua soddisfacente?»
L’atteggiamento della moglie era dominante: parlando si sporgeva in avanti, sovrastando il marito e schiacciandolo sia fisicamente che verbalmente.
«Cosa c’entra l’uovo di Pasqua adesso? Siamo a novembre.»
Foschini parlava con finta disinvoltura ma era sulla difensiva. Probabilmente aveva passato l’intera vita sulla difensiva: si sapeva (perché in provincia queste cose si sanno sempre) che i soldi erano della moglie e che lui giocava il ruolo del principe consorte.
«Pensaci bene – proseguì lei ignorando volutamente la banale osservazione del marito – hai mai trovato anche soltanto una volta una sorpresa nell’uovo di Pasqua che non fosse una ciofeca colossale? Anche in quelli che più si dichiaravano di lusso, con sorprese firmate e quant’altro. Alla fine poi non contenevano che un brutto portachiavi, una penna che non scrive o cianfrusaglie simili.»
«Ancora non ti seguo...» pigolò Foschini.
«Le troie, caro mio, ti attirano con una luccicante confezione esterna, con quelle labbra gonfie che promettono pompini da sogno...»
«Marta, ti prego...» gemette Foschini arrossendo e guardandosi intorno.
Settebordi terminò di tagliare la fiorentina e lasciò il vassoio a disposizione dei due coniugi, tornando in cucina per prelevare la prossima comanda.
«E allora, poliziotto? Ti sei gustato la scenata coniugale che poi ti frutterà una mancia più grossa?»
Ciupanelli, cameriere anziano del locale, non lo vedeva di buon occhio. Ancor di più dato il fatto lampante che a Settebordi non importasse un fico secco dell’opinione di Ciupanelli. Che lo chiamasse pure, lui come gli altri, poliziotto. La cosa gli faceva quasi piacere e non perché si sentisse lusingato dall’appellativo, bensì perché gli ricordava un passato del quale era felice di essersi liberato. Anni di studio, di sogni, di ambizioni, di speranze di cui non era rimasto nulla e che tuttavia non rimpiangeva. Non era stato un poliziotto, ma con le questure aveva collaborato per lungo tempo, in qualità di esperto di cinesica. Il linguaggio non verbale era la sua specialità e in molte occasioni gli era servito per risolvere casi intricati.
Invano, però.
La sua richiesta di poter entrare in pianta stabile in polizia non aveva mai avuto seguito e si era sempre dovuto accontentare di incarichi a gettone.
Per cui a un certo punto aveva detto basta. Il primo lavoro con uno stipendio decente che fosse riuscito a procurarsi, purché non lo impegnasse con la testa, lo avrebbe preso al volo. E così era finito a fare il cameriere in quella trattoria chic nel centro di Montecatini. In un paese dove i cuochi fungevano ormai da opinion leader e dove non potevi accendere la televisione senza imbatterti in un programma di cucina, la ristorazione era un settore che snobbava la crisi e i tavoli erano pieni tutte le sere.
Niente di meglio per Settebordi. Testa libera da elucubrazioni, semplice lavoro con stipendio dignitoso e nessuna preoccupazione. Aveva tirato dentro anche suo cugino, Dino Rosi, disoccupato cronico e scansafatiche da competizione, piazzandolo come aiuto in cucina. Abituato a trascorrere le giornate da nullafacente e a campare con il sussidio di disoccupazione, Rosi non mancava di lamentarsi, ogni volta che capitava, di questa tremenda disgrazia che gli era piombata addosso: dover lavorare.
Dopo aver ignorato il sarcasmo di Ciupanelli, entrato in cucina si trovò quindi di fronte il battagliero cugino: «Michele Settebordi! Lo sai quante patate ho sbucciato stasera?»
«Licenziati.»
«Ancora qualche giorno e vedrai…»
Ma quel giorno minacciato più volte non arrivava, poiché Rosi stava sperimentando sensazioni nuove, come per esempio il rientro a casa senza sotterfugi. Fino a poco tempo prima, privo com’era di uno stipendio fisso, doveva escogitare modi sempre nuovi sia per entrare che per uscire dal proprio appartamento: non pagava le spese condominiali da anni e l’amministratore gli tendeva agguati su agguati. Adesso, in comode rate, aveva iniziato a saldare gli arretrati.
«Ci mancavano le vostre recriminazioni familiari per essere al completo in questa gabbia di matti», disse Ciupanelli passando loro accanto.
Ciupanelli era perennemente incazzato con il mondo intero. Di fare il cameriere si vergognava. Non perché avesse titoli di studio tali da farlo ambire a qualcosa di meglio: possedeva solo la terza media, non essendo neppure riuscito a terminare l’istituto alberghiero. Il fatto era che lui sentiva di appartenere alla categoria dei furbi, e i furbi fanno i soldi, in barba alla laurea o alle capacità. Il fatto che invece il mondo lo relegasse a servire quelli che i soldi li avevano davvero lo considerava uno sgarbo del destino.
Settebordi proseguì nella sua politica di ignorarlo del tutto e tornò in sala.
Mentre serviva una portata al tavolo adiacente a quello dei coniugi Foschini, poté udire altri brandelli della concione della moglie.
«… come quelle che portano i tacchi alti pur avendo il culo basso. In questo modo non fanno che accentuare la propria chiattonaggine…»
L’amante di Foschini si presentava sempre in equilibrio su trampoli vertiginosi e questo non fece che confermare a Settebordi che la moglie si divertisse a tormentarlo. Probabilmente neppure lei si faceva mancare l’amante, perché non c’era traccia di gelosia nel suo atteggiamento, ma voleva ribadire la propria posizione di superiorità.
Si trattò comunque dell’ultima frase prima che nel ristorante entrasse la polizia.
L’ispettore Reggiani, accompagnato da un agente in divisa, si fermò poco dopo l’ingresso e scrutò la sala. Quando scorse Settebordi ebbe un moto di sorpresa e gli fece cenno di avvicinarsi.
«Che cazzo ci fai qui Settebordi? Un’operazione in incognito?» gli chiese, osservando la sua tenuta da cameriere.
«No, Reggiani, ho solo cambiato lavoro.»
«Cambiato lav… vabbè me lo spiegherai un’altra volta. Adesso indicami Alfredo Foschini, se sai chi è.»
«Lo so. Mi puoi dire perché…»
«No, non posso.»
«Andiamo, Reggiani.»
«Sto per arrestarlo per l’omicidio di Ciocetti Zaira, sua amante. O meglio ex amante, visto che l’ha strozzata. Ora mi vuoi dire chi è?»
Per evitare un arresto in mezzo alla sala, Settebordi andò al tavolo e, con un pretesto, chiese a Foschini di seguirlo. Dopo, non poté impedire alla sua deformazione professionale di seguire e osservare con attenzione le fasi seguenti.
Fece poi in tempo a raggiungere Reggiani prima che chiudesse lo sportello dell’auto, all’interno della quale stavano conducendo via un Foschini in evidente stato di shock, e a parlargli.
* * *
«Come hai fatto a capire che era stato lui?» gli chiese Reggiani il giorno dopo in questura. Aveva quel misto di considerazione e sospetto con cui lo trattavano in genere gli investigatori e che era stata una delle cause per le quali aveva abbandonato la collaborazione con la polizia. Che si era ritrovato poi a dover svolgere quasi controvoglia, con il caso del meschino Foschini.
«Ero lì accanto quando gli avete notificato l’arresto, e che il colpevole non fosse Foschini l’ho capito subito. Di fronte a quella notizia ha strizzato più volte gli occhi. È la classica espressione di chi è talmente sorpreso da non poter credere alla realtà e prova a chiudere e riaprire gli occhi nella speranza di trovarsi in un sogno. Non è la reazione di un colpevole.»
«Mi stai dicendo che semplicemente per il fatto che ha sbattuto le palpebre tu hai capito che era innocente?» Di nuovo l’incredulità cui era ormai abituato.
«Lo so che non si tratta certo di azioni che possano costituire una prova da esibire in tribunale. Proprio per questo il cinesico opera come consulente: a trovare le prove o a procurarsi le confessioni deve pensarci la polizia.»
«Ma come hai capito chi era il colpevole?»
«Mi ha insospettito l’atteggiamento di Ciupanelli, quando è uscito dalla cucina per osservare la scena. Aveva le mani in tasca, il che è inusuale per un cameriere. Voleva reprimere qualcosa. Inoltre non tutta la mano era nascosta: ne spuntava il pollice. Si tratta di una postura altamente aggressiva, di cui non sapevo spiegarmi il motivo. E inoltre entrambi i pollici puntavano senza ombra di dubbio in direzione di Foschini. Lui e la moglie erano clienti abituali e mi sono ricordato d’improvviso di una volta in cui, per puro caso, avevo captato un brandello di conversazione fra Ciupanelli e la moglie di Foschini mentre questi era in bagno, e i due si davano del tu. Cosa che non avveniva nell’ufficialità. I miei sospetti si sono quindi ingigantiti ed è stato allora che ho deciso di rincorrerti fino all’auto e confidarteli. Poi voi avete fatto il resto.»
«In effetti la loro montatura per simulare l’omicidio da parte del Foschini era abbastanza cialtronesca e probabilmente ci saremmo arrivati comunque. Però ci hai risparmiato senz’altro del tempo. Andiamo in pasticceria che ti offro la colazione.»
Quello era il massimo di ricompensa che poteva aspettarsi e si accontentò. D’altra parte Reggiani non si era accorto della piccola discrepanza temporale nel suo racconto. Settebordi non aveva subito seguito l’ispettore all’auto per comunicargli i suoi sospetti e infatti era arrivato solo poco prima che se ne andassero. Quel brandello di conversazione gli era tornato in mente dopo che suo cugino gli aveva riferito di aver scorto Ciupanelli che, credendosi non visto, aveva fatto gesti di esultanza all’arresto di Foschini.
Si fece offrire qualche pasta in più, che mise in un sacchetto da portare a Dino.
domenica 12 gennaio 2025
Cold Case
Michele Settebordi è il personaggio protagonista di più racconti gialli che ho scritto nel corso degli anni, alcuni raccolti nel volume Il provinciale (Placebook, 2023) altri sparsi in antologie varie. Analista del linguaggio non verbale, risolve i casi osservando il comportamento delle persone. Quello che segue è un inedito, che lo vede alle prese, come dice il titolo, con un "caso freddo".
COLD CASE
«Ma dove pensate di essere, in America? Non so se vi siete guardati attorno ma questa è Montecatini Terme, ventimila abitanti.»
«Risparmiati l’ironia, Settebordi. Anche perché non hai nulla da perderci, anzi mi sembra una buona occasione per te, visti gli ultimi tempi di magra.»
«Non era per quello, Reggiani. Il fatto è che una iniziativa del genere mi lascia davvero stupito e mi chiedevo quali fossero le motivazioni.»
L’ispettore Reggiani era uno dei pochi che non considerasse Michele Settebordi un ciarlatano, e forse proprio per quello era stato deputato ad affidargli l’incarico.
«La risposta te l’ho già data: tempi di magra per il delitto. Bene o male sei del settore e saprai anche tu che gli omicidi sono in calo costante. DNA, telecamere dappertutto, ormai è difficile farla franca per chi ammazza. Anche le mafie da anni hanno adottato la strategia del sommergibile, operano soprattutto con la finanza e ricorrono all’omicidio solo in casi estremi. Quindi, strano a dirsi, ci troviamo momentaneamente sovradimensionati.»
«Ma i delitti comuni?»
«Adesso sei tu che credi di trovarti in un altro paese. Non lo sai di essere in Italia? Non li leggi i giornali? Non ti accorgi che i nostri politici ogni giorno cancellano un reato? Che per i pochi sfigati che ancora rimangono in prigione ogni settimana arriva un indulto, uno svuotacarceri, un perdono, un’assoluzione dai peccati? Pur di parare il culo a se stessi e ai loro sodali i governanti adottano la teoria del liberi tutti.»
Settebordi avrebbe voluto rispondere che lo sapeva benissimo, che era proprio per quello che da anni aveva scelto di rimanere ai margini, di non tentare di fare carriera. Nessuno meglio di lui si rendeva conto di essere in Italia, dove il talento e l’intelligenza erano guardati con sospetto e solo gli utili idioti, o chi si fingeva tale, potevano aspirare a posizioni importanti. Ma fare il paladino in battaglie ideologiche non lo interessava, perciò portò di nuovo la discussione sul piano concreto.
«Ho capito, ho capito: poiché c’è una quota di personale poco o per niente occupata, qualcuno che guarda troppe serie TV ha avuto la brillante idea di istituire una sezione dedicata ai cold case. Però torniamo alla domanda di partenza: perché allora ricorrere a un esterno come me?»
Da molto tempo Settebordi collaborava con varie questure della Toscana come esperto esterno di cinesica, cioè di linguaggio non verbale. La sua disciplina, come già accennato, era guardata con sospetto dalla maggior parte degli investigatori, che tendevano a considerarlo poco più o poco meno di una specie di sensitivo. In realtà Settebordi applicava metodologie e tecniche scientifiche ben documentate e testate, per scoprire la verità non tanto da ciò che i testimoni e i sospetti dicevano, quanto da come si comportavano.
«In primo luogo lo sai che sei un beniamino del questore e poi pare che in questo caso le tue abilità possano tornare utili.»
Così dicendo Reggiani gli porse un faldone, nel contempo alzandosi per indicare che il colloquio era terminato.
«È tutto su carta; roba del secolo scorso quindi niente di informatizzato.»
«Ma non mi dici nulla, qualche spiegazione, qualche aiuto…»
«Settebordi, sarà anche vero che siamo sovradimensionati ma questo non vuol dire che non abbia niente da fare. Il tesserino ce lo hai?»
«Sì.»
La questura gli forniva un tesserino di riconoscimento, che di per sé non lo qualificava né lo abilitava a niente, però a un esame frettoloso poteva farlo passare per un poliziotto.
«Allora vai con Dio.»
Fosse stato un altro funzionario lo avrebbe congedato mandandolo affanculo, perciò Settebordi se ne andò quasi soddisfatto.
* * *
Bastarono poche pagine del fascicolo per far comprendere a Settebordi che gli serviva l’aiuto di Perboni, il suo professore di inglese del liceo. Prima di proseguire nella lettura estrasse il telefono e gli inviò un messaggio, per invitarlo a un aperitivo quella sera stessa. Sapeva che avrebbe accettato e che si sarebbe rivelato una miniera di informazioni. Gianmarco Perboni, con sessantacinque anni di vita e trentacinque di insegnamento a Montecatini Terme era una memoria storica vivente della città.
* * *
«L’omicidio Morelli? Certo che me lo ricordo! Lui era un industrialotto che si era bevuto cervello e soldi dietro alle ballere e…»
«Spiegati meglio.»
«Sarà bene che ti illustri la Montecatini degli anni ottanta, perché sono trascorsi solo quattro decenni ma tutto è cambiato. Mi occorrerà un altro prosecco.»
Che a offrire fosse Settebordi, Perboni lo dava per scontato e non esitava ad approfittarne.
«Tu vedi la città di adesso, con gli stabilimenti termali che cadono a pezzi, i negozi chiusi, gli alberghi pure e dove il poco turismo che si è salvato è quello dei pacchetti tutto incluso. Negli anni ottanta giravano i soldi. E come tutte le città termali Montecatini si distingueva per due aspetti, basati sul denaro: gioco d’azzardo e puttane. A quell’epoca, ti ricordo, le uniche scommesse legali erano quelle sui cavalli e Montecatini ha l’ippodromo, quindi affluivano giocatori da tutta la Toscana. E chi vinceva poi andava a festeggiare in uno dei tanti night-club che punteggiavano la periferia. Qui lavoravano le ballerine, dette comunemente ballere, delle etnie più varie, dalle tailandesi alle polacche, dalle argentine alle brasiliane. Tutte con un unico scopo ben fisso in mente: acchiappare un pollo. E i polli non mancavano, sempre per il fatto che correva un mare di soldi. Qualcuna delle ballere più avveduta riusciva a diventare una mantenuta fissa, con tanto di appartamento e conto aperto nelle migliori boutique del centro. Cosa vuoi, i nuovi ricchi abbondavano: avevano fatto i soldi ma erano ancora dei provincialotti e pensavano che fosse di classe mantenere un’amante straniera. Non erano pochi quelli facevano il passo più lungo della gamba e, obbedendo alle richieste sempre più esose della ballera di turno, mandavano a puttane (è proprio il caso di dirlo) l’azienda di famiglia. Morelli era stato uno di quelli. Fino ai quaranta anni solo lavoro e famiglia poi aveva scoperto il mondo della trasgressione, dilapidandovi in poco tempo una fortuna. Se ricordo bene…»
Perboni si interruppe.
«Un altro prosecco per facilitare la memoria?»
«Come studente non eri particolarmente brillante ma vedo che con l’intuito sei molto migliorato.
«Stavo dicendo che Morelli quando fu trovato morto era proprio partito per la tangente: lasciata la moglie e i figli, viveva con una brasiliana e litigava con il socio per vendere l’azienda e intascarsi altri soldi, visto che aveva dato fondo a tutta la liquidità disponibile. All’inizio il suo sembrò un suicidio, poiché era volato giù dal quarto piano del suo appartamento, ma l’autopsia rivelò che era imbottito di sonnifero; prima lo avevano addormentato e poi fischiato di sotto.»
«Se sapevo che eri così informato mi risparmiavo la lettura del fascicolo.»
«I giornali all’epoca ci camparono per settimane. Ovviamente la prima a essere sospettata fu la moglie, ma aveva un alibi di ferro, poiché da giorni si trovava a casa della sorella nel nord Italia. L’alibi della giovane mantenuta era più debole, ma per lei mancava il movente: che motivo aveva di uccidere la gallina dalle uova d’oro? Entrambe, poi, avrebbero avuto grosse difficoltà a trascinarlo e gettarlo oltre il balcone: Morelli era un omone che pesava il doppio di loro. Alla fine passò l’ipotesi del furto, visto che l’appartamento era stato ripulito, però non convinse del tutto: dopo che il ladro o i ladri avevano addormentato il Morelli, che motivo c’era di ucciderlo? Un conto è andare in galera per furto, un altro per omicidio.»
«Omicidio su commissione?»
«Anche qui l’unica mandante plausibile era la moglie, che però non era certo il tipo da avere agganci con persone della malavita e infatti anche su quel versante non saltò fuori niente.»
«Usurai e cravattari vari?»
«Il Morelli non era ancora a quel punto. Aveva fatto fuori una parte consistente del suo patrimonio ma era ancora solido. Con il tempo sarebbe riuscito senz’altro a rovinarsi del tutto, ma la morte glielo impedì.»
* * *
Reggiani aveva accennato a un fattore che poteva favorirlo nell’indagine. L’unica sopravvissuta delle due sospettate era la convivente, la moglie era morta di tumore più di dieci anni prima. Gli stranieri tendono a essere più decrittabili nel linguaggio non verbale, poiché la minore padronanza della lingua li spinge a un maggior uso dei gesti. D’altra parte, dopo oltre quaranta anni di soggiorno in Italia, questo margine si era ridotto probabilmente quasi a zero.
Settebordi suonò il campanello. Non aveva preso contatti per telefono perché preferiva un approccio non preparato da parte della persona da osservare. La prima reazione era spesso illuminante.
Secondo i dati fornitigli dalla questura Isabella Larissa Ferroa Dias abitava ancora nell’appartamento dove era avvenuto il delitto, di sua proprietà in quanto donatole a suo tempo dal Morelli.
Il condominio si trovava in via Baragiola, una tranquilla strada residenziale di buon livello. Sul campanello solo il nome Isabella.
«Chi è?»
«Questura.»
Trascorsero alcuni secondi di silenzio, poi ci fu lo scatto di apertura del portone. Non gli era stato detto a quale piano recarsi ma Morelli era volato giù dal quarto, quindi…
Percorse le scale invece di prendere l’ascensore. L’attesa generava ansia, che a sua volta diminuiva il controllo di sé. La trovò ad attenderlo sulla porta, una bella signora elegante, sulla sessantina ma ben portati. Quando lui le mostrò il più velocemente possibile il tesserino semi-farlocco lei portò la mano destra al collo, nel tipico gesto femminile di difesa.
Non era una ammissione di colpa, nessun gesto lo è. Qualcuno ingenuamente credeva che l’esperto di cinesica fosse in grado di scoprire le menzogne in automatico, ma purtroppo non era così: non esiste una gestualità della colpevolezza, solo mettendo insieme una serie di comportamenti si può intuire se una persona dica o meno la verità. E quel gesto rivelava solo una forte dose di stress.
Il tesserino svolse la sua funzione e la Dias dopo le presentazioni lo fece accomodare in salotto. La casa appariva in ordine e ben arredata. Un tranquillo appartamento borghese.
«Per cosa…?»
«Delitto Morelli.»
«Pensavo che ormai la prescrizione…»
L’accento brasiliano, se c’era, era impercettibile.
«Gli omicidi non cadono mai in prescrizione, signora Dias.»
Isabella raddrizzò la schiena per darsi un tono ma i suoi piedi puntavano verso la porta: desiderio di non trovarsi lì in quel momento.
«Cosa vuole chiedermi?»
«Perché sul campanello c’è solo il nome senza il cognome?»
«Perché sono una puttana, signor Settebordi, e le puttane sul campanello scrivono solo il nome. Ai clienti basta e avanza.»
Stavolta aveva rivolto i piedi verso di lui e posto le mani sulle ginocchia, in atto di sfida.
«Da dove proviene tutta questa amarezza?»
«Sono quaranta anni ormai che abito in questa casa ma gli altri condomini non mi hanno mai accettato. Per loro sono sempre rimasta la mantenuta che ero all’inizio, la ballera che aveva accalappiato il pesce grosso. E io ho lasciato solo il nome sul campanello, per far vedere che me ne fregavo. Buongiorno e buonasera e mai una parola di più.»
«Perché non si è trasferita?»
«E con quali soldi? Avrei dovuto vendere questo appartamento per comprarne un altro, rimettendoci. E magari fare davvero la puttana per mantenermi.»
Così dicendo si era accesa una sigaretta, prelevandola da un elegante cofanetto posto sul tavolino da fumo che li separava, Era chiaramente sulla difensiva. Le spalle leggermente incassate, la mano sinistra che correva ad aggiustare i capelli.
«E quindi, dando per scontato che non ha fatto la puttana, in questi anni di cosa è campata?»
La domanda era aggressiva ma a Settebordi la risposta non interessava, quasi non la ascoltò. La Dias spense la sigaretta, fece per prenderne un'altra, ma si limitò ad afferrare con entrambe le mani il cofanetto trasparente dove ne stavano allineate a decine e lo spostò. Poi, sempre parlando, girò in un’altra direzione il vaso di fiori freschi che era lì accanto e infine si dedicò a un ninnolo etnico, che sembrava raffigurare qualcosa di fallico, cambiandogli posizione da un lato all’altro del tavolino da fumo.
«…è soddisfatto della mia spiegazione?»
«Non ci ho fatto caso. Pensavo ad altro.»
«È venuto qui per prendermi in giro?»
«Tutt’altro. Pensavo di scambiare due chiacchiere con lei, per poi chiudere definitivamente il fascicolo, visto che la principale sospettata da tempo non è più fra noi. Non mi aspettavo di scoprire che invece lei con la morte di Morelli c’entra, eccome.»
Ecco, c’era sempre un momento come quello. Il momento decisivo. Perché le indicazioni non verbali ti indirizzano ma non sono una prova. Poteva forse dire alla polizia di arrestare la Dias perché aveva costruito una barriera difensiva, disponendo gli oggetti sul tavolo in modo che si frapponessero fra lei e Settebordi? Oppure che fra un movimento e l’altro delle mani i segnali pacificatori che segnalavano lo stress, come per esempio accarezzarsi un palmo, si susseguivano senza sosta? Già gli ridevano dietro, figuriamoci se avesse chiuso lì la conversazione e si fosse presentato in questura con quegli elementi.
No, doveva per forza provocare una reazione e sperare in un punto di rottura.
Isabella Dias rimase a lungo in silenzio, senza accennare ad alcuna protesta nei confronti dell’accusa che le era stata fatta. Settebordi giocò a carte scoperte, l’unico modo in cui poteva procedere.
«Lei prova ancora un forte senso di colpa, altrimenti non sarebbe rimasta qui per quaranta anni, infliggendosi la punizione di abitare in un luogo che le ricorda un episodio così orribile e in mezzo a persone che la disprezzano.»
Prima di rispondere la Dias si accese un’altra sigaretta, aspirando il fumo quasi con violenza.
«Ha ragione. Non so perché ma è così. E davvero non ne capisco il motivo. Morelli era un coglione fatto e finito e avrebbe finito di rovinare sé e la famiglia se sua moglie non fosse venuta da me a propormi di toglierlo di mezzo. In cambio di un adeguato compenso, si capisce, che mi permettesse di vivere di rendita. La questione dei soldi l’abbiamo regolata in Svizzera, come si usava allora, perché la polizia non scoprisse niente. Non mi è costato niente neppure farlo fuori, avevo conoscenze nella malavita come tutte le puttane che si rispettino e la persona che ho assoldato si è accontatata del bottino fatto svuotando l’appartamento. Per qualche tempo mi ha voluta come amante ma anche questo per una puttana è normale. Ah, a proposito, inutile cercarlo: pure lui da molti anni se n’è andato all’altro mondo, un regolamento di conti o roba del genere.»
Tacque. Settebordi non disse niente e lei dopo un po’ riprese: «Volevo cambiare vita, si capisce, e per un po’ ci ho anche creduto. Ma poi ho smesso anche di rimandare. Forse aspettavo che qualcuno venisse a liberarmi dei ricordi.»
«Grazie», aggiunse infine.
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